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Curinga, 19 febbraio 2014

 

         Ho sempre pensato che la felicità di ognuno di noi non può prescindere da quella degli altri. Dovessi rappresentare graficamente il concetto questo non sarebbe espresso da un valore, un numero ma piuttosto da un risultato che comprenda la somma di più numeri , più valori. Nello stesso modo ho sempre pensato che la generosità non sia una qualità individuale ma un sentimento che, se si ha la fortuna di sperimentare non toglie qualcosa ma arricchisce chi la pratica. Come la verità che non è un punto di arrivo ma un percorso indefinito,a tendere, irraggiungibile. Un orizzonte tenue che ci attira. Come quando da ragazzi tentavamo di raggiungerlo a nuoto in quel mare immenso davanti a noi che sembrava non finire mai fino a stancarci e rientrare a riva sfiniti ma con la promessa di riprovarci ancora domani, un 'altra volta.

           Ma torniamo alla felicità e domandiamoci se ha ancora senso parlare di felicità in un momento storico come l'attuale dove sembra che il termine più usato sia "emergenza". Emergenza lavoro, emergenza sanità, emergenza profughi, emergenza povertà, emergenza sicurezza etc. La Felicità, alla luce di un contesto sociale simile appare un accessorio che non ci si può permettere. Bisogna essere pragmatici. Bisogna uscire dalle crisi. Bisogna pensare a formule economiche nuove, a teoremi ancora inespressi, visto che quelli in uso sono ormai diventati tutti inefficaci. La felicità è uno status che si attiva dopo che si è risolto la contingenza. E cosi abbiamo imparato a mettere da parte anche i sogni o quantomeno a consentirceli solo in una dimensione privata, attenti a non condividerli per la paura di essere considerati irresponsabili e visionari. E cosi disillusi e demotivati perdiamo ogni giorno un pò della nostra rotta e rimaniamo in balia della paura e con un senso di vuoto che ci pervade. Nella nostra natura di umani cerchiamo sempre di superare tutte le difficoltà quotidiane a prescindere dalla loro dimensione riponendo la speranza nel futuro. Quel futuro che oggi sembra non appartenerci più. Che cerchiamo di non immaginare perché ci preoccupa e nessuno più sembra essere disposto a raffigurarcelo in maniera positiva. Perché nessuno è più in grado di capire quando e dove finirà tutto questo disincanto.

        L'invito a raffrontarci a chi rimane dietro di noi in condizioni più precarie diventa un esercizio pericoloso. Ci porta a racchiuderci in noi stessi, a custodire gelosamente e non solo, quello di cui disponiamo. In una dimensione necessariamente egoistica ci isoliamo maggiormente nel nostro privato slegando ogni giorno di più quelle relazioni sociali, familiari, amicali che potrebbero in qualche modo minacciare il nostro seppur debole status economico. La certezza del risultato negativo ci trattiene a metterci in gioco, a rischiare, ad osare. Ma probabilisticamente parlando la mancanza della prova non è la prova della mancanza. Chi capisce questa piccola regola prospera quando gli altri patiscono. Succede in borsa ma succede anche nella Vita. Una statistica Istat ci dice che i poveri dal 2010 sono raddoppiati ma anche i ricchi.

       Il consumerismo in questi anni ci ha fatto pensare che siamo cittadini validi, attivi solo quando riusciamo a consumare a soddisfare quelle esigenze che altri hanno indotto. Abbiamo imparato tristemente cos'è il PIL (prodotto interno lordo) e lo spread (differenziale di tasso tra il nostro Btp decennale ed il corrispondente tedesco). Siamo entrati in quella spirale competitiva in termini produttivi per cui la regola del mercato non è più produrre a qualità maggiore ma a costo più basso. In tutto questo chi prospera è chi produce che può disporre sempre di un disperato nell'angolo più remoto del Pianeta. Così la Globalizzazione si è trasformata in una sorta di bomba atomica dagli esiti incontrollabili.

      Mi vengono in mente le parole ancora una volta rivoluzionarie di Papa Francesco che ci ha invitato ad osare. Questo grande Uomo ha capito che la cosa peggiore che ci può capitare è quella di lasciarci annichilire. Credo, e chiedo scusa per l'analogia, che anche nei campi di concentramento chi ha dato la forza ai sopravvissuti sia stata la speranza. Le rivoluzioni hanno senso e nascono se si ha la forza di immaginare un mattino diverso. Pensiamo ai nostri figli ed al loro futuro. Insegniamogli che si può essere rivoluzionari senza violenza. Che un altro Mondo è possibile.

 

                 Piervincenzo Panzarella

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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