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  Iniziamo le nostre ricognizioni dalla sponda destra a valle del Fiume Angitola; l’antico nome dell’Angitola è “Tanno”.

Stando a quanto dice il Barrio ed a quanto riferisce Licofronte, in un punto nei pressi dell’Angitola è esistito il centro abitano “Crissa”, fuochi 202, abitazione fondato da Crisso fratello di Pompeo Focese, il quale navigò in quel mare dopo la caduta di Troia.

In una recente pubblicazione di notevole importanza del Sacerdote Dottor Francesco Albanese “Vibo Valentia nella sua storia” troviamo, a pag. 11, una cartina geografica di evidente stampa moderna con toponomastica latina, segnato un centro abitato dal nome “Annicie”.

Lo stesso nome ed al medesimo punto, nei pressi del Fiume Angitola, figura nella scala 1/250.000 “Italia  Antica” vol. IV Arte e civiltà, del Touring Club italiano - Milano 1960. Per quante ricerche abbiamo fatto, non siamo riusciti ad avere qualche notizia di questo centro. Ci sorge il dubbio che possa trattarsi di “Crissa”. Padre F. Russo, eminente storiografo, asserisce in “Diocesi di Nicastro” che con la denominazione bizantina, comparve una nuova diocesi quasi a metà strada fra Tempsa e Vibona  che venne distrutta dai saraceni nel IX sec. Si tratta della “Statio ad turres” la cui esistenza è attestata dall’Epistolario di S. Gregorio Magno, per la fine del VI secolo.

Il Capialbi dice: “Non città eravi nel dinotato sito, ma bensì una stazione di corrieri” - Evidentemente sorgeva sulla via Popilia.

Ci domandiamo ora quale attinenza vi potrebbe essere fra i tre nomi: Annicie, Crissa e ad Turres.

Forse la risposta è seppellita negli arenili. Argomentiamo, con molto azzardo, che questo trinomio, che avrà subito il cambiamento toponimo attraverso il tempo, designi la stessa città.

È assodato che in epoche preistoriche, il nostro litorale era quasi alle falde degli attuali rilievi. Per rendersi conto basta consultare il “Fischer ; Storia naturale della penisola italiana” pag. 29.

A causa del bradisismo, delle alluvioni e delle frequenti libecciate, venne a formarsi l’attuale pianura sabbiosa, già ricca di paludi che un po’ per volta si bonificarono sia per la colmata col materiale portato dai torrenti, sia per l’opera dell’uomo.

Verso la spiaggia si formarono i cordoni litoranei divenuti dune con l’allontanarsi del mare, mentre nel retroterra rimanevano vasti arenili.

Questo fenomeno è in atto lungo tutta la spiaggia di S. Eufemia.

Continuiamo la nostra ricognizione percorrendo l’attuale strada litoranea di costruzione quasi recente, che si snoda presso a poco sul tracciato di quella che fu la via Popilia.

Arriviamo al Fondaco Vecchio o del Fico. Una notizia tramandata da padre a figlio, dice che in questo maniero, soggiornò Cicerone durante i suoi viaggi a Vibo Valentia ed in Sicilia.

Il sacerdote Dottor Francesco Albanese nel suo volume “Vibo Valentia nella sua storia” a pag. 95 dice: “Una vaga tradizione indica come Villa di Sica (Sica intimo amico di Cicerone) un balzo presso il Fiume Angitola col nome di Capanna di Cicerone” Mancano dati storici su detta notizia che non è surrogata da documenti. Evidentemente l’Albanese non era a conoscenza che un balzo a poca distanza dall’Angitola presenta un rudere turrito ai sue angoli occidentali in zona denominata “Eccellente” in territorio del Comune di Francavilla Angitola. Nelle vicinanze sia vallive che montane non esiste alcun rudere e lo affermiamo dopo aver girovagato da tempo, in lungo ed in largo per tutta la zona chiedendo informazioni ai naturali e dopo aver consultato vari autori.

È vero che siamo sempre nel campo delle ipotesi, come spesso avviene quando si parla di archeologia e non intendiamo lavorare di fantasia; ma quale migliore fonte non ci offre il “fondaco Vecchio” per indurci a pensare che proprio questa era la  Villa di Sica?: tanto più che i nostri antenati ci hanno tramandato la notizia che ivi soggiornò Cicerone.

I ruderi del Fondaco Vecchio o del Fico sono ubicati in un sito ameno, al riparo dei venti di tramontana, su un arenario molto compatto, di fronte al mare in un clima eternamente primaverile, dove in pieno inverno fiorisce il mandorlo e per giunta sulla via Popilia.

Questa venne costruita dal Console P. Popilio nell’anno 132 a. C.; e fu in seguito anche conosciuta col nome di via Aquileia dal Proconsole Aquileio Gallo. (Così dicono gli scrittori Grimaldi - Sinopoli - Dito ed altri).

La Popilia che si innestava a Terina con la Traianea seguiva per Hipponion e raggiungeva Reggium (come dalla lapide di Polla).

Nella zona “Eccellente” specialmente a valle, vengono spesso alla luce durante i lavori agricoli, avanzi di sarcofagi fittili di fattura greca e romana, di cui conserviamo alcuni frammenti.

Ci riferiamo ora all’idrografia di questa zona: nella piana di S. Eufemia, nel tratto che dell’Angitola porta all’Amato, esiste una falda freatica che oggi molti agricoltori, attraverso i pozzi utilizzano per l’irrigazione a pioggia dei campi.

Il Fondaco Vecchio o del Fico, data la sua ubicazione ad una certa altezza dal livello della Piana, non poteva certo usufruire dell’acqua del sottosuolo, mancando in quella epoca i mezzi meccanici per sollevarla. Probabilmente l’acqua veniva condottata da zone più alte.

In collina infatti a qualche chilometro esiste una sorgente detta Ficara (leggi fico) che fornisce abbondantissima acqua potabile che condotta a valle poteva rifornire il detto maniero.

Premesso che al disotto dei ruderi esistono grandi cisterne che certamente venivano utilizzate per raccogliere anche le acque dell’impulvio.

Continuando verso il mare, arriviamo ai ruderi “Torre vecchia” dove osserviamo una costruzione rettangolare non a blocchi e tanto meno in “opus incertum” ma in pietrame e malta comune. Notiamo addossati ai quattro angoli dei barbacani costruiti certamente in un secondo momento, come rinforzi, perché probabilmente il complesso pericolava. Si nota la differenza di muratura fra questi rinforzi e le mura.

Il materiale adoperato sembra di recupero, forse da ruderi preesistenti di costruzioni arcaiche.

I barbacani poggiano su zoccoli dallo spessore di circa tre metri e sono molto interrati.

Al lato Nord dei ruderi esistono gli avanzi di una scala a gradini che porta al distrutto secondo piano, costruita con pezzi irregolari che fanno pensare appartenessero ad altri ruderi.

Da un attento esame sull’ultimo gradino della scala al lato sinistro, si notano alcune lettere incavate facenti parte di una scritta logorata dal tempo e perciò illeggibile. Pare trattasi di greco arcaico, così sono state definite da un glottologo al quale sono state sottoposte. IN PN PM: solo queste sono leggibili.

In quel posto esiste una torre costruita pare nel IX sec. a. C.; potrebbero gli attuali ruderi far parte di un complesso costruito sugli avanzi di altra torre distrutta chi sa in quale epoca ed in quali circostanze; siamo nel campo delle ipotesi.

Un fatto comunque è certo: nella zona vi sono stati importanti insediamenti umani fin da epoca remotissima ed è naturale che il problema idrico è il più importante per la sopravvivenza. Poiché non vi sono sorgenti nelle adiacenze, non sembra pertanto improbabile che si sia sfruttata l’acqua della precitata falda freatica attraverso pozzi dai quali si attingeva l’acqua stessa per mezzo della “Sena” (Dall’arabo Sania) dispositivo azionato a sangue costituito da un certo numero di secchi tirati su da una catena girante attorno ad un tamburo.

A poca distanza dalla “Torre vecchia”, esiste la torre dei Cavallari o Torrazzo, che faceva parte del sistema difensivo e di avvistamento delle navi pirata saracene del Sultano Solimeno secondo . Il sistema fu ordinato da Carlo V lungo le coste calabresi.

Osservando attentamente la costruzione del Torrazzo, è evidente che il materiale adoperato proveniva da ruderi preesistenti nella zona; non vi sono blocchi.

Continuiamo il nostro cammino, incontriamo vecchi contadini ai quali rivolgiamo qualche domanda sui ritrovamenti fortuiti; sono le solite risposte: durante i lavori campestri, molti frammenti di argilla vengono alla luce e fra questi anche pezzi i sarcofagi.

Arriviamo in contrada Trivio - S. Giorgio, già proprietà del Cav. Giuseppe Rondinelli da Filadelfia ed ora passata al Signor Giuseppe Greco.

È qui che durante un giro di ricerche qualche anno fà abbiamo rinvenuto i resti di una necropoli.

Eseguito un nuovo sopralluogo abbiamo notato che durante l’impianto di un agrumeto venne alla luce una grande quantità di materiale fittile ridotto in frantumi. Evidentemente molto prima di questo impianto arboreo, la necropoli venne messa a soqquadro. Ora il materiale resta ammassato in grandi cumuli in vari punti del terreno. Sono avanzi di sarcofagi, mattoni di varie dimensioni non siglati, pezzi di orci ecc.

Quello che maggiormente ha attirato la nostra attenzione è stato un pitoio a tre posti lesionato e corroso, dove certamente erano stati inumati tre cadaverini. Presenta le medesime caratteristiche di un pitoio esistente nel Museo attiguo al Tempio della Madonna di Lucano nei pressi di Buenos Aires che abbiamo visitato il 22 giugno 1958.

Sempre a S. Gregorio, rovistando fra le tante macerie, abbiamo trovato alcuni dischi di argilla, forse simbolici, fatturati in modo rudimentale, del diametro di cm. 18 con spessore cm. 4, 5. Ne abbiamo prelevato qualcuno assieme a pezzi di materiale fuso, forse detriti di qualche fucina per l’industria metallurgica.

Esistono ancora sul posto due elementi di forma biconica, con altezza di cm. 60 e con diametro in base di cm. 25 posanti su lamina di piombo e portanti alla sommità un piccolo foro. Il tutto è di materiale poroso che a prima vista sembra vulcanico. Detti due elementi hanno molta somiglianza col materiale dei mulini Pompeiani.

Ci domandiamo: a quale centro abitato appartenne questa Necropoli?

Tutto resta nel buio fino  a quando sondaggi e scavi faranno luce.

Per noi trattasi della necropoli di “Ad Turres” specialmente se teniamo in considerazione quanto asserisce l’Illustre storiografo Padre Francesco Russo sull’esistenza di quella cittadina.

È da pensare che i fenomeni naturali, bradisismo, alluvioni, formazione di cordoni litoranei, ecc. ci abbiano privati di preziosi avanzi.

Il Cav. Giuseppe Rondinelli durante una conversazione ci disse che nell’eseguire lavori agricoli in zona S. Giorgio Monganello, rinvenne, anni fa, una conduttura idraulica in muratura ed un tubo di piombo del diametro di cm. 4 - Come è noto il piombo era più in uso presso i greci che presso i romani, poiché i primi più dei romani, disponevano di questo materiale.

La strada litoranea ci invita a proseguire mentre si snoda su ondulati arenili dove non un rudere affiora - Anche per il passato abbiamo battuto invano questa zona in cerca di qualche elemento arcaico. Abbiamo rinvenuto solo qualche tratto di strada carraia quasi in abbandono, traccia di quella che fu la cosiddetta Via dei francesi o di posta, riattata, sulle orme della Popilia.

Continuiamo avvistando a valle fino al mare, una estesa pineta in pieno rigoglio, impiantata dalla Azienda Forestale dello Stato. Siamo ora in territorio di Curinga, zona paludosa fino a trenta anni fa e bonificata come tutta la Piana di S. Eufemia.

Raggiungiamo la sponda sinistra del medio Turrina, attraversiamo il ponte a tre luci sulla litoranea e presto siamo alla passatoia del Torrente “La Grazia” raggiungiamo quindi il ponte sul Fiume “Amato” e pensando di non trovare nelle adiacenze alcun rudere, torniamo sui nostri passi e finalmente ci troviamo in agro di Curinga.

Ci inoltriamo nel vecchio alveo di Turrina in gran parte imbrigliato; siamo in zona archeologica dove il terreno ha subito un forte dislivello a sbalzi per l’accumulo di materiale alluvionale.

Non vi è che iaia, pietrame e ciottolome; raggiungiamo non senza fatica i ruderi di “Ellene”. Di questi abbiamo dato spesso particolari sulla Rivista “Calabria Letteraria” dell’ammirevole dott. Frangella nonché sulla Rivista “Archeologia” di Roma e su un nostro opuscolo.

Per chi non fosse a conoscenza ripetiamo:

dal piano terra attuale, affiorano da Sud muri alti da due o tre metri, mentre l’altezza massima arriva oltre i quattro metri a Nord Est. La muratura in parte è a sacco “opus incertum”, tecnica costruttiva romana realizzata con pietrame misto a malta, senza alcun ordine. Vi sono molti rivestimenti a mattoni di argilla da cm. 30 x 15 x 4, alcuni con sigla lineare di fabbrica sullo spessore del mattone “opus latericium”, tecnica costruttiva romana di origine etrusca.

Si vedono ancora grandi archi a tutto sesto, evidentemente trattasi di costruzione prettamente romana. Sono in evidenza alcune nicchie e addossati alle pareti esistono condutture di argilla, sia rotonde  che piatte, utilizzate per le acque ed i vapori.

Non si nota traccia di piombi.

Qualche scrittore asserisce che sono i resti di un tempio pagano, ma noi non escludiamo che le caratteristiche sono di un complesso termale.

Sappiamo che con l’occupazione da parte dei Locresi, Hipponion fece  suoi i principali culti degli occupanti e cioè quelli di Castore e Polluce; tanto risulta anche da un’epigrafe segnalata da Vito Capialbi: Castore e Polluce cum sequis Inscription a pag. 10.

Ora è bene ricordare che la zona di Ellene è nel comprensorio dell’antica città “Acconia” e trascriviamo:

Lacconia nei tempi più antichi fu detta “Lautonia” (così riferisce Bernardino Marturano e conferma Gerolamo Sambiase); però nè Barrio nè Marafioti danno notizie sui suoi fondatori, nè sulla data della sua fondazione; la chiamarono terra molto antica.

Se a noi è stato tramandato il nome di Eddani e l’Ellani riferentesi alla zona dove esistono i ruderi di questo bagno Romano, non è detto che il nome di Ellani si riferisca solo al complesso termale ma bensì a tutta la zona: tanto risulta dagli atti pubblici. È quindi da ritenere che gli stanziamenti di gente latina nella zona Ellani avvennero in un secondo tempo; i romani ricostruirono sulle vestigia dei predecessori greci che avevano già realizzato un complesso cittadino.

I reperti greci venuti alla luce per il passato (le monete occultate) testimoniano gli stanziamenti, ciò è anche dimostrato dai nuovi reperti che affiorano tutti gli anni durante i lavori agricoli, fra i quali frammenti di tombe e di stoviglie, ecc. vandalicamente distrutti.

Ecco quanto si legge a pag. 14 di “Vibo Valentia nella sua storia” del Sacerdote Dottor Francesco Albanese - Tip. Carioti - Vibo Valentia 1962 - : “Hipponion in posizione strategica singolare domina il centro del vasto golfo ipponiate, ora detto di S. Eufemia ecc.”.

Da ciò è da desumere che l’espansione di Ipponion si estendeva oltre l’Angitola nella Piana di S. Eufemia comprendendo “Ad Turres, la Torre Vecchia, S. Giorgio e Manganello e quindi il territorio di Acconia. Ciò è anche asserito da altri scrittori calabresi.

Tenuto presente che durante la fondazione delle colonie greche, la prima costruzione era un tempio dedicato alla Divinità Protettrice nel recinto delle mura, ci poniamo qualche domanda: Era la città di Acconia o Lacconia già chiamata Lautonia sotto il dominio di Ipponion? Ci mancano le fonti per asserirlo e solo gli scavi alla periferia degli attuali ruderi di Ellene potrebbero dar luce.

È fuor di dubbio che i ruderi come si presentano oggi, sono gli avanzi di terme romane, ma chi può asserire che al di sotto di essi non esista una costruzione preromana sulla quale siano state edificate le terme?

La vasta zona di Acconia è di un’importanza archeologica da molti ignorata ed inesplorata. Nelle indagini non bisogna fermarsi all’attuale piano terra che altro non è se non un ammasso di materiale alluvionale portato dal torrente Turrina, proveniente dalle frane a monte.

Abbiamo parlato di fenomeni in atto in tutta la piana. Abbiamo consultato in qualche carta geologica la stratificazione avvenuta nei vari periodi di formazione avvenuti durante i millenni; ora perché non pensare che il sottosuolo nasconda quì altri ruderi? In tal caso potremmo avanzare l’ipotesi che il tempio pagano sarà servito di base per edificare le terme.

Esiste una sorgente termale solforica ferruginosa non lontana dagli attuali ruderi, denominata “Scescia”; non è da scartare l’ipotesi che queste acque calde potevano sopperire ai bisogni delle terme, a meno che non verrà scoperto un ipocausto: come già si è detto, addossati alle pareti esistono delle condutture in argilla che ci inducono a pensare che si tratti di “tuboli” che avevano la funzione di condurre l’aria calda dal forno sottostante (prefornium) fino agli ambienti da riscaldare.

Ecco alcune notizie che ci tramanda un insigne scrittore: il Sig. Francesco Saverio Romeo nato a Maida il 1771 e morto il 30 marzo 1851; egli dice: “a dodici chilometri circa dal nostro abitato (Maida) nel luogo Lelleni di proprietà del Sig. Francescantonio Perugini da Curinga, si vedono avanzi di un Tempio tutto di mattoni (nostra nota: non è tutto di mattoni); e continua: ai tempi della mia gioventù esisteva nel mezzo poco elevato da terra, l’ara oggi distrutta dalla mano dell’uomo. Si deve pensare che il tempio fosse dedicato a Castore e Polluce, Frates Ulnae. Un’alluvione del vicino fiume Turrina, scoprì due colonne di granito orientale che si vogliono parte del tempio di Castore e Polluce ed altre due colonne dello stesso granito furono diseppellite mercè alcuni scavi[1]”.

Ora per nostra personale conoscenza le dette colonne che in un primo momento giacevano nel cortile del Palazzo Ducale in zona S. Giovanni, già appartenuto alla Regina Sancia, furono nell’estate del 1956 trasportate nel cortile della Villa Cefaly presso il villaggio Agricolo nei pressi della Stazione Ferroviaria di Curinga, una in quattro pezzi ed una in due.

Nel cortile della detta Villa Cefaly esiste abbandonato un mulino romano.

 

Diamo ancora alcune notizie frammentarie:

Si vuole che durante una forte siccità avvenuta a Crotone e suo agro, la Piana di S. Eufemia, mandò a quella città grandi quantità di derrate.

Ricordiamo ancora che ebbe Acconia un Vescovo nella persona di Pietro Sonnino che fu con tale carica nella Diocesi di Cerenzia e Cariati. Nel 1489 fu trasferito a Nicastro dove morì nel 1490.

Ebbe Acconia Parroco Don Tommaso Melina, nato a Marcellinara, Beneficiario di S. Opillo e S. Maria di Calavrici, poi Vescovo i Bova.

Continuiamo la nostra ricognizione e ci rechiamo alle dune sabbiose ad Est di Acconia che formano il comprensorio Prato S. Irene.

Per il passato, quì sono venute alla luce tombe sparse costituite da sarcofagi fittili; esse sono appartenute agli abitanti di Acconia.

Risulta da antichi testi che gran parte della popolazione aveva residenza effettiva nei campi in raggruppamenti familiari: così attesta Tucidide. Ecco perché in questa aperta campagna vengono spesso alla luce vasi e materiale fittile, come si è verificato nella zona Trivio S. Giorgio Monganello, Torre Vecchia ed in tutto il territorio Coste a valle della strada Statale 18, nonché a monte.

Durante una nostra recente escursione, abbiamo trovato in zona Zupponaro, sulla sponda destra del Turrina, pezzi di sarcofagi fittili romani. I contadini del luogo ci assicurano che durante i lavori agricoli emergono molti frammenti fittili di varie forme.

Continuiamo il nostro cammino recandoci sulla Strada Statale 18 ed arriviamo in contrada le coste; siamo ai piedi delle ubertose colline con macchie di sugheri e di elci. L’occhio spazia verso il glauco mare, già Sinus Ipponiate, così chiamato da Tolomeo.

Lo stesso Golfo fu denominato Lametico da Aristotele, Turrino da Plinio e Napitino da Antiochio.

Giunti in prossimità della proprietà dei Fratelli Serrao da Filadelfia, ricordiamo che nel 1923, durante un nostro sopralluogo, abbiamo sorpreso alcuni operai intenti a lavorare la terra per l’impianto di un agrumeto;  dallo scavo emergevano frammenti fittili, fra cui qualche pezzo di sarcofago ed un pezzo di mosaico a bianco e nero da pavimento, sottoposti al giudizio del valente archeologo e storiografo Dottor Carlo Felice Crispo da Vibo Valentia, nostro caro amico, furono ritenuti tanto interessanti che questi si recò sul posto assieme al Soprintendente alla Antichità della Calabria ed in nostra presenza si stabilì che poteva trattarsi in residenza di qualche Console Romano. È bene notare che la località è al riparo dei venti di tramontana e che a non molta distanza vi è tuttora (come forse allora) una sorgente alcalina denominata “Fellaro”.

Chiudiamo questa note proponendoci di fare altre ricognizioni.  


[1] Dalla Magna Grecia e delle Tre Calabrie Nicolò Leoni 184 vol. III.

 

 

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