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"a centocinquant'anni di distanza"

 

Intervista in esclusiva per www.curinga-in.it

Al Dott. Clemente Condello sul suo poema patriottico

"acentocinquant'anni di distanza"

 

 

 

Intervento dell' autore durante la presentazione del libro

"a centocinquant'anni di distanza"

www.curinga-in.it ringrazia il prof Franco Mirenda per la gentile collaborazione

Curinga, 10 dicembre 2011

Pubblichiamo per il momento, alcune foto dell' interessantissima presentazione del poema patriottico di Clemente Condello " a centocinquant'anni di distanza " organizzato dall' Associazione per Curinga.

Sono intervenuti Angelo Pacileo Presidente dell' associazione, , hanno relazionato il Prof. Francesco Senese e la giornalista Giovanna Terranova, ha declamato alcune terzine Tonino Falvo, ha condotto la giornalista Maria Scaramuzzino.

 

Le relazioni  e interventi della serata

 

Relazione e saluto del Presidente dell' Associazione per Curinga

 Angelo Pacileo

Buonasera.

 

A nome mio e a nome di tutti i soci dell’Associazione per Curinga dò il benvenuto a tutti i presenti.

Ringrazio le autorità civili e religiose per aver accolto l’invito per questo evento.

Un grazie particolare va al Priore della Confraternita del Carmelo che per l’ennesima volta ospita una nostra manifestazione in questo salone.

 

Oggi come Associazione per Curinga chiudiamo le manifestazioni dell’anno 2011, per ricominciare subito nel 2012, che sarà il ventesimo anno di attività, con la festa della Befana.

Il 2011 ci ha visti impegnati in ben 13 eventi, che riescono a coinvolgere tutta la comunità Curinghese, iniziando dai bambini con la festa della befana, la festa degli alberi e il concorso sulla Fiera dell’Immacolata questi ultimi due in  collaborazione con l’Istituto Comprensivo di Curinga.

Manifestazioni che hanno come scopo la promozione di  Curinga: vedi il concorso fotografico “Riscopri Curinga”, la Bettola,  Vicoli & Gusti, la pubblicazione del calendario, la partecipazione, su invito della Direzione del Centro Commerciale Le Fontane, alla Festa dei Nonni (dove abbiamo ricostruito un ambiente familiare con le ricamatrici e il cestaio);

Manifestazioni che  premiano le eccellenze espresse dalla nostra comunità, con la Borsa di Studio al migliore studente diplomato dell’anno, e il Premio Curinga città del Mondo;

Manifestazioni che promuovono momenti di cultura come  l’odierno Incontro con l’Autore.

Da non dimenticare le collaborazioni per la Maratona di Curinga, l’Associazione  Ciclistica di Curinga e il Gruppo Volontari della CRI di Curinga.

E per ultime le proposte all’Ente Comune: come “Adotta uno spazio” e la DE.CO. sui fagioli dell’alta collina e quella sui ceci del Canneto.

Attività che esprimono due ITEM, tanti cari al nostro Sindaco “Massa critica “ e “Marketing del Territorio”, perseguiti dall’Associazione non tanto nell’enunciato ma quanto nell’Agito.

Dietro c’è un gran lavoro fatto con passione da una formidabile squadra di innamorati di questa comunità; squadra che è stata guidata in questi venti anni da altrettanti tre straordinari capitani!

 

Dopo questo richiamo all’attività dell’Associazione passiamo alla manifestazione odierna, che quest’anno ha già avuto un altro appuntamento, in aprile abbiamo presentato il libro “Il fantasma del castello” di Antonio Panzarella,. Ma già in passato l’Associazione si era cimentata in incontri di questo genere: nell’agosto 2010 è stata la volta di Carmine Abate con “ Vivere per addizioni”, nel febbraio del 2005 “ Il senso dei luoghi. Memorie e vita dei paesi abbandonati.” di Vito Teti e ancora dello stesso autore ad agosto del 1995 “Il Peperoncino”.

A partire dal 2010 abbiamo pensato di istituzionalizzare questa manifestazione con due incontri annuali, uno nella primavera e l’altro nell’autunno.

 

Come Associazione cercavamo di organizzare una manifestazione legata alla celebrazione del cento cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ricorrenza richiamata in tutti i manifesti delle nostre manifestazioni del 2011 con il logo celebrativo, Clemente Condello ci è venuto incontro con il suo poema patriottico!

 

Clemente ha iniziato a frequentare il nostro giro di amici alla fine degli anni settanta, periodo in cui trasferitosi da Varese ha vissuto a Curinga. Momento storico contraddistinto da forti ideali e da grandi contrasti politici.   

In quegli anni inizia a scrivere le sue prime poesie che ritroviamo in una raccolta privata dal titolo  “canti di venere”.

Tra il 2007 e il 2010 Condello scrive altre opere e ngli ultimi due anni ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti ai premi di poesia Montano (Verona), Ugo Foscolo (Venezia), Tapirulan (Parma), Cavedio (Varese), sino ad arrivare “ a centocinquant’anni di distanza” poema patriottico che narra gli eventi che da 150 anni si sono succeduti in Italia, dall’Impero Romano alle  dominazioni straniere, dalle crisi economiche all’emigrazione verso le Americhe.

Inoltre da cittadino del mondo si cimenta in un analisi sull’Italia contemporanea, quasi come stesse osservando il Bel Paese dall’alto.

Infine emerge un grande amore per questa patria e nello stesso tempo una collera per quanto rimane incompiuto nella nostra amata Italia.

       Grazie per l’attenzione e buon proseguo della serata.

 

Relazione del Prof. Francesco Senese

Ringrazio il presidente Angelo Pacileo e il presidente che ha appena concluso il suo mandato, Pietro Mazzotta,  per l’invito che mi hanno rivolto a presentare il libro di Clemente Condello “A CENTO CINQUANT’ANNI DI DISTANZA”.

 

Sono particolarmente contento di poter condividere questo momento con voi tutti e con l’autore del libro, Clemente, verso il quale ho sempre nutrito grande stima e considerazione.

L’Associazione per Curinga, per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, credo che abbia fatto un’ottima scelta proponendo il testo di Clemente, il “poema patriottico”, un testo agile, di appena una quarantina di pagine.

Ma l’apparenza non inganni, perché il libro si regge (poggia) su un substrato culturale di rilevante spessore, dissimulato mediante l’uso di un linguaggio generalmente comune, familiare, discorsivo, a volte ironico, qualche volta sarcastico.

Il libro si inserisce nel dibattito che, anche di recente, ha animato la ricerca storica nonché le cronache giornalistiche sull’unificazione d’Italia, sul Risorgimento, sulla identità nazionale. Desidero ricordare solo due titoli che mostrano una qualche attinenza tematica col nostro testo. Sono due saggi:  La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica di Ernesto Galli della Loggia e Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo di Giorgio Ruffolo.

Il libro di Clemente ha, però, una sua particolare fisionomia: esso non è né un saggio storico né una ricostruzione storica del Risorgimento; esso è, come recita il sottotitolo, un “poema patriottico”, cioè un’opera letteraria, che vuole celebrare appunto la patria, ma a modo suo, e insieme con la patria il nonno emigrato in America. A differenza di quanto pensa Galli della Loggia, evidentemente per Clemente la patria è viva, non è morta, anche se qua e là affiora, sotto forma di interrogativo, qualche dubbio o timore circa la partecipazione degli italiani al processo unitario, oggi: gli italiani vi partecipano ancora? Sono fatti gli italiani? ci si domanda. E in questo senso a me pare si muova anche la citazione, riportata in epigrafe, dei versi conclusivi di una poesia Mario Luzi:

-         cerco di farmi intendere

dinanzi a non so che tribunale

di che sognata equità. E l’udienza è tolta[1].

 

 La poesia, tratta dalla raccolta “Al fuoco della controversia”, risale agli anni di piombo 1975-1978, gli anni cioè del terrorismo delle Brigate Rosse. Il tema della poesia è “la morte della repubblica”. Dice il primo verso:

Muore ignominiosamente la repubblica.

 

“La poesia – commenta il critico – […] ha lo spicco di una protesta civile e universale nello stesso tempo”[2].  Il poeta cerca inutilmente di farsi intendere dinanzi a qualche tribunale di una “ equità”, di una giustizia solo sognata, non reale. Ma resta inascoltato: l’udienza non si tiene. Si tiene oggi l’udienza? Oggi “muore ignominiosamente” solo la cosiddetta seconda repubblica o con essa muore anche l’Italia?

 

Nel libro le vicende della patria sono viste, prima, con gli occhi del nonno, che ad esse in qualche modo ha partecipato o le ha vissute o ne è stato coinvolto e influenzato, e poi con gli occhi dei nipoti, che a quelle vicende non hanno partecipato e per le quali non sembra mostrino particolare interesse o trasporto.

Esperienze diverse, modi diversi di vedere le cose.

Per i nipoti, il nonno è vissuto tra ristrettezze economiche, ha emigrato, ha fatto tanti sacrifici; ha, perciò, maturato una visione opaca, pessimista della patria.

Loro, i nipoti invece vivono nel benessere, vanno a Roma a prendersi un caffè, vanno in vacanza al mare o in montagna, non sono provinciali, amano i cantanti americani. Ma col benessere sono cambiati anche i valori, per cui la nuova generazione appare priva di idealità, di convinzioni profonde: all’occorrenza si può essere di sinistra, di centro, di destra. Si è buoni con la gente che merita, ma non si tollerano molto gli stranieri. La patria, poi, appare come un termine desueto.

Verrebbe quasi da dire I vecchi e i giovani di pirandelliana memoria.

Ma il confronto non è solo tra nonno e nipoti: è anche tra gli stessi nipoti, i quali, - nel corso di una cena organizzata per ricordare, insieme, il nonno, l’unità d’Italia e l’America, - possono esporre i loro contrastanti punti di vista.

Ma non vi è dialogo tra i personaggi, nel senso che non vi è “replica”: Ognuno interviene una sola volta: il singolo personaggio viene introdotto, esprime la propria opinione su un determinato argomento, a volte in contrasto o a correzione o a conferma di quanto affermato in precedenza da altri, e poi sparisce e non interloquisce più.

Ciò, ovviamente, è funzionale agli intendimenti dell’autore: egli vuole rappresentare un caleidoscopio di opinioni: i diversi, contrastanti punti di vista su temi che riguardano la storia d’Italia e l’attualità: una piccola, ma significativa galleria di personaggi portatori di diversi interessi, diversi indirizzi culturali e politici.

La “cena pluralista”, perciò, non è altro che una carrellata (rassegna) sulle vicende politiche d’Italia negli ultimi 150 anni e sui problemi attuali e indirettamente la rappresentazione della babelica confusione politica che ci governa.

Ne viene fuori un affresco originale delle cose d’Italia, passate e presenti.

 

I cugini hanno tutti una “caratterizzazione ideologica”, che si ricava dal tenore dei loro interventi e, in qualche caso, dal commento del narratore[3].

Il narratore apre bocca per fare un brindisi alla repubblica italiana, ma viene  interrotto dal tramestio dei commensali: chi intona canti risorgimentali; chi grida che gli stati nazionali ormai sono superati: c’è l’Europa.

Il narratore difende l’Europa politica, ritenuta più importante di quella economica: viene tacciato di essere un avvocato delle cause perse.

Per il cugino prete l’unità d’Italia è una “tresca repubblicana e risorgimentale”.

La cugina Clara, comunista e cattolica, richiama il ruolo politico svolto da Don Sturzo, che ha riportato i cattolici nell’agone politico, e la posizione critica di Gramsci sul Risorgimento, frutto della borghesia e senza alcun apporto delle masse contadine.

Il cugino Giorgio, fascista, ha un atteggiamento aggressivo (risponde “da buon fascista / con un gancio destro e un ushiro geri”, p. 31) e manifesta tutta la sua avversione verso i contadini, i quali sono quasi naturaliter poveri e comunque destinati a cercare altrove fortuna, e difatti Mussolini li aveva mandati in Africa a morire in Abissinia.

“Con l’inconfutabile conclusione / gramsciana non s’arriva da nessuna / parte”: così esordisce con tono enfatico in polemica con Clara, ignorando che la tesi di Gramsci sul Risorgimento come rivoluzione agraria mancata è stata confutata dagli storici[4].

Il cugino Giorgio è un superficiale, un fanfarone. In lui si è voluta rappresentare la vuotaggine della retorica fascista.

Ada, la cugina ebrea, è rappresentata in atteggiamento piuttosto goffo, con la kippà in testa, mentre “azzanna un prosciutto / di Parma”. Il verbo “azzanna” ci comunica tutta la forza, la determinazione con la quale Ada si concentra sul prosciutto, quasi voglia scaricare su di esso la rabbia che nutre in corpo per le leggi razziali volute dal fascismo e da Mussolini, che essa perciò attacca pesantemente.

Ma il marito, poliziotto, non gradisce queste polemiche del passato e richiama tutti all’attualità: che bisogno c’è, dice, di rinvangare le cose vecchie del passato, quando abbiamo una crisi economica incombente, il pericolo nucleare, le guerre nei paesi islamici, i profughi?

La cugina Emy ha studiato filosofia, ma lavora in banca! Si picca di essere una pensatrice: un personaggio demolito da una sottile, corrosiva ironia.

I cugini Carloalberto (il buon cugino Carloalbero) e Ferdinando rappresentano il contrasto tra il Nord e il Sud, cioè tra la Lega e i movimenti sudisti. La mezza rissa che insorge tra i due viene sedata dal nonno, il quale intima il silenzio: ormai “l’Italia è fatta e gli italiani pure” (p. 35).

Poi aggiunge, con un felice gioco (scambio) di fonemi (di lettere), “non tutti i mali vengono per cuocere / il cervello degli italiani sani” (p. 35).

Il male sono le spinte disgregatrici dell’unità d’Italia presenti al Nord e al Sud. Di qui la condanna dei movimenti sudisti e l’invito a pensare con la propria testa e a non farsi strumentalizzare da chi è mosso solo da interessi elettoralistici.

Il cugino Gioacchino condivide quanto detto dal nonno e in maniera più esplicita invita a ragionare, meglio a vigilare, a discernere il grano dal loglio, a non scambiare per democrazia una dittatura travestita, ad avere sale in zucca, a non lasciarsi irretire dagli imbonitori, che sono presenti  “a tutti i livelli, dal comunale / al provinciale fino al regionale, // dallo statale all’europeo …” (p. 36).

Ma per la cugina anonima berlusconiana, che è la “rappresentante politica della / famiglia nella legislatura …” – si badi “rappresentante della famiglia”, non del popolo! -, quelle di Gioacchino sono solo “farneticazioni”: avrebbe voluto disertare la cena, ma se ne è lasciata convincere da un chilo di bottarga di tonno, promessale dal “cugino chef  stellato”!

Essa rappresenta il degrado della politica, ridotta alla difesa gretta di interessi particolaristici e familistici, indifferente financo agli affetti familiari: è presente alla cena per la bottarga, non per il nonno!

 

 

Nel libro sono presenti spunti teorici (filosofici) attinenti alla concezione della storia. Il riferimento a Vico è esplicito. Nel primo “episodio”, che si intitola significativamente la storia, - una specie di premessa teorica - , dopo un fugace accenno ad alcune vicende del Risorgimento – la Repubblica Romana, stroncata dalle truppe francesi guidate dal generale Oudinot, la Repubblica veneta, presa per fame dagli Austriaci, il dominio straniero su quasi tutta la penisola – si afferma che “la storia / gira costretta in una gabbia umana” (p. 15), e cioè che la storia è fatta dagli uomini, che le sue vicende si ripetono (“corsi e ricorsi storici”), “si ripete / la storia, come sempre: solo cambiano / gli attori ed è per questo che essa gira” (p. 16). Quindi la citazione testuale del concetto fondamentale della filosofia di Giambattista Vico:

“verum et factum / convertuntur”, ossia “ciò che è vero e ciò che è fatto convergono, si identificano”, “norma del vero è l’averlo fatto”, “il vero è la stessa cosa col fatto” (verum ipsum factum). Detto in parole più semplici: si può conoscere solo ciò che si è fatto, quindi la storia, che è fatta dagli uomini, può essere conosciuta dagli uomini, mentre la natura, che non è fatta dagli uomini, ma da Dio, non può essere conosciuta dagli uomini, ma solo da Dio, che l’ha creata[5]. Vico valorizza l’uomo come forza collettiva: fattore della storia  è l’uomo collettivo, e non più l’uomo-individuo come si sostiene dall’Umanesimo in poi.    A noi, ovviamente, non interessa approfondire questi argomenti: qualora lo ritenga opportuno, può farlo Clemente con maggiore autorevolezza. Per il nostro assunto bastano questi pochi cenni.

Ora se la storia si ripete e se può essere conosciuta, il suo studio – è la conclusione -  ci serve nel presente “a capire / fatti strani, a fare mente locale, / a non perdere mai di vista ideali / umani tipo libertà unità / felicità” (pp. 15-16): tutte conquiste costate sangue e sacrifici. La storia come “magistra vitae”. Di qui l’invito rivolto ai giovani a riflettere, a studiare, perché “la conoscenza della / storia per analogia col presente / non sempre è cosa facile” (p. 16), a non consumare il proprio tempo con le “play station” o, come recita il testo con espressione molto pregnante, a “ ‘prendere’ il tempo dalle / play station per restare soli un attimo / con se stessi”, come se non si fosse più padroni del proprio tempo, avendolo consegnato alla strumentazione informatica (quasi un redire in se, un “ritornare in se stessi” di senechiana memoria):  la storia è “ricerca” , “indagine”, “inchiesta” (come ci dice, suggerisce la sua etimologia[6]) e come tale richiede fatica, impegno, tempo, riflessione.

Ma in un mondo informatizzato, globalizzato – si domanda il narratore – serve ancora un ideale vecchio come il risorgimento? Sì, serve, - è la risposta - ma serve un risorgimento mondiale, serve, cioè, una rigenerazione, una rinascita  del pensiero critico, una riconsiderazione generale, aggiungiamo noi, dei meccanismi di sviluppo. Questo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili? Chi può imporci di pensare che ogni nostra aspirazione a cambiare la storia sia destinata al fallimento? si domandava Gerald Allan Cohen, il filosofo canadese scomparso un paio di anni fa.

 

Il libro, come si può rilevare da questi pochi cenni, mostra ed ha una sua complessità. Si possono, perciò, tentare più livelli di lettura: esso

1)     può essere riguardato sotto il profilo letterario per metterne in luce gli aspetti retorico-stilistici, le tecniche narrative adottate, le fasce di caratterizzazione dei personaggi, le figure retoriche disseminate nel testo, la combinazione delle rime e gli effetti di stile che producono, ecc.;

2)     può essere riguardato sotto il profilo “storico” per approfondire i riferimenti alle vicende della storia d’Italia, prima e dopo il  Risorgimento: per esempio, la romanizzazione della penisola, la Questione Meridionale, i rapporti Stato-Chiesa, l’emigrazione, ecc.;

3)     può essere riguardato sotto il profilo dell’attualità politica, prendendo spunto dai riferimenti che ad essa si fanno, approfondendoli: per esempio, i movimenti sudisti, il degrado della politica, la Lega, ecc.

 

 

La prima cosa che salta agli occhi, sfogliando il testo, dedicato “A tutti gli italiani emigrati o no”, è la sua struttura, così concepita: un prologo, composto di 4 particolari sequenze;  una epigrafe,  che riporta gli ultimi tre versi della poesia di Mario Luzi; 14 “episodi”, a ciascuno dei quali è attribuito un titolo posto tra parentesi, il primo è “la storia”, l’ultimo è “commiato”. Tutti gli “episodi” e una sequenza del prologo, “Del Risorgimento”, sono scritti in versi endecasillabi, raggruppati in terzine, non rimate: la rima, quando c’è, non risponde ad uno schema fisso. La punteggiatura è completamente abolita, tranne che nel prologo, ma ciò non determina la frantumazione della struttura narrativa del testo.

 

Anzitutto il prologo. Il prologo è elemento tipico della tragedia greca, adottato poi anche dalla commedia[7].  Serviva ad esporre la situazione dalla quale doveva svolgersi il dramma, cioè l’antefatto, e, a volte, a indicare le principali linee di esso. Tale compito veniva affidato o ad un attore (per esempio ad Antigone, la protagonista,  nella omonima tragedia di Sofocle) o ad un dio (per esempio, a Diòniso, nelle Baccanti di Euripide).

Qui tale compito viene affidato – trovata del tutto originale -  al Leopardi, al Tommaseo, a Vito Lanciani e a Romolo Eltano (sotto questi due pseudonimi si cela sicuramente l’autore): il Leopardi ci parla con quattro versi[8] tratti dalla poesia All’Italia, nei quali il poeta chiede che gli vengano date le armi: visto che gli italiani non si battono per l’Italia, allora combatterà solo lui, “procomberò sol io”, cadrò solo io, dice; il Tommaseo, che era un patriota e per questo conobbe l’esilio a Parigi, irride tale proposito, data la fragilità fisica del Leopardi; Vito Lanciani (cioè l’autore) trae la conclusione che sia l’uno che l’altro, ciascuno a suo modo, partecipava al “processo unitario”, un processo, aggiunge, “che si tramava nei secoli”; Romolo Eltano (ancora l’autore) riprende implicitamente quest’ultimo concetto nella sequenza successiva Del Risorgimento, nella quale a tratti velocissimi, con una serie di aggettivi che si inseguono con un ritmo frenetico accentuato dalla rima interna, viene delineato il percorso del “pensiero italiano storico nazionale” e la storia d’Italia, “sola dell’aquila romana erede”, cioè erede della grandezza di Roma, destinata comunque ad essere travolta dalle vicende storiche successive, dalle invasioni barbariche (“da una storia a volte cupa”), per trovare un’àncora di stabilità e di salvezza nell’opera di Dante. Qual è la conclusione? Noi oggi siamo il frutto, il risultato, la somma di tutte queste vicende, nel bene e nel male: “E in tutto quest’arcano / ci siamo noi, i nipoti della Lupa”, cioè di Roma.

Nella tragedia  l’antefatto erano gli avvenimenti mitologici che avevano preceduto l’argomento, anch’esso mitologico, svolto nel dramma.

Qui l’antefatto sono gli avvenimenti storici, politici, culturali che hanno preceduto la proclamazione dell’unità d’Italia, praticamente tutta la storia della penisola dalla conquista romana in poi.

A me pare che la struttura del libro richiami in qualche modo, consapevolmente o inconsapevolmente, quella del dramma antico.

L’unità d’Italia, la storia d’Italia è anch’essa un “dramma”? 

L’unità d’Italia, meglio il processo unitario, così viene proiettato nel mondo antico, quando la penisola viene unificata dalla graduale e sapiente espansione di Roma[9], per essere successivamente disintegrata dalle invasioni barbariche e diventare terra di conquista e di scontro tra eserciti stranieri dopo la discesa in Italia del re di Francia, Carlo VIII, nel 1494.

Ma se l’unità politica della penisola è stata frantumata dal corso degli eventi storici, l’unità culturale, religiosa, spirituale non è mai venuta meno e in ciò Dante, con la sua opera, ha svolto un ruolo fondamentale di “stabilizzazione” non solo per quanto riguarda la lingua.

Questo concetto viene ribadito più volte nel testo:

“… Bevo / alla repubblica italiana, unita / idealmente nei secoli dall’aquila  / romana”, (p. 28) così inizia il brindisi del narratore all’Italia unita al principio della “cena pluralista”;

“ …Italia sola erede dell’Aquila romana / indomita, e nei secoli domata / dalle vicende umane e da una storia / a volte cupa, ma stabilizzata, / dall’àncora dantesca in italiano / antico e approssimato che parliamo / sempre ancora oggi” (p. 11).

 “la repubblica italiana / resa stabile dall’àncora / dantesca” (p. 28). 

Il riferimento a Leopardi, con la poesia All’Italia, al di là della polemica davvero singolare del Tommaseo, vuole sottolineare proprio questo aspetto, e cioè il ruolo svolto dalla letteratura, dall’arte, dalla filosofia, dalla religione, insomma dalla cultura, nel creare quella unità spirituale. La lettera inviata dal Papa al Presidente della Repubblica il 17 marzo scorso costituisce una sintesi magistrale del contributo dato dalla religione e dalla cultura di ispirazione cattolica, sul piano artistico, letterario, filosofico, politico, ecc., alla costruzione dell’identità italiana.

Sul piano più strettamente “civile”, potremmo fugacemente ricordare, per esempio, la canzone del Petrarca Italia mia, ben che ‘l parlar sia indarno, con la quale il poeta,  “rivolgendosi ai Signori d’Italia, li prega di far cessare le vane guerre fratricide e di restituire la pace alla penisola rinunziando all’uso delle milizie mercenarie tedesche, infide e pericolose”[10] o l’esortazione del Machiavelli a Lorenzo de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, “a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”[11].

Ora tutto questo è vero, ma bisogna aggiungere (precisare) che una cosa è l’unità culturale, linguistica e spirituale d’un paese, altra cosa è l’unità politica e che la seconda, cioè l’unità politica, non consegue necessariamente alla prima, all’unità spirituale, culturale: difatti l’Italia, per secoli, è stata unita “spiritualmente”, ma divisa “politicamente”.

Ha scritto giustamente Benedetto Croce: “Prima del 1860, vi sono realmente le storie dei regni di Napoli e Sicilia, del regno di Sardegna, dello Stato pontificio, del granducato di Toscana, dei possedimenti di casa d’Austria, e via discorrendo e variamente specificando col risalire il corso dei tempi; ma non c’è una storia d’Italia”[12]. Appunto perché la storia d’Italia comincia col 1860-61.

Bisogna allora dire che l’aver realizzato l’unità politica d’Italia è merito precipuo delle correnti liberali e democratiche risorgimentali, non importa se di tendenza monarchica o repubblicana, cattoliche o no, che avevano i loro leader, come si dice oggi, in Cavour, Vittorio Emanuele II, Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, ecc., e che trovarono il loro collante, oltre  che nel perseguimento dell’unità e dell’indipendenza dell’Italia, nella concezione laica dello Stato: laica, non laicista , come si scrive in qualche documento con una punta di disprezzo e di ostilità.

Al processo unitario diedero certamente un contributo rilevantissimo grandissime personalità del mondo cattolico – Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo D’Azeglio, Raffaele Lambruschini, Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni, Silvio Pellico, Marco Minghetti, Bettino Ricasoli, Giovanni Lanza - , ma è giusto osservare (precisare) che “le loro azioni mai si iscrissero entro le linee ufficiali della Chiesa e delle gerarchie ecclesiastiche”[13].

Nelle parole del cugino prete, che, durante la “cena pluralista”, insorge in modo scomposto al brindisi alla repubblica italiana - per lui l’unità d’Italia, come abbiamo poco sopra ricordato, non è altro che il frutto di una “tresca / repubblicana e risorgimentale” (p. 28), uno sporco maneggio occulto di mazziniani e massoni - riecheggia l’ostilità della Chiesa verso il Risorgimento, verso la massoneria e verso la modernità, quale si esprime nei documenti ufficiali del Vaticano: il Sillabo e le Encicliche relative a questi temi.[14]

La verità è che il processo nazionale non fu “un’indistinta melassa”[15], né prima né dopo il 1861.

Anzi, appena realizzata, l’unificazione fu sottoposta a prove durissime, tanti e tali furono i problemi che si dovettero affrontare; e c’era chi ne temeva il fallimento e c’era anche chi, al contrario, lo auspicava, per esempio i Borboni.

Né oggi mancano “pulsioni neoborboniche” intese a “celebrare i fasti dell’Italia arretrata e paternalistica  degli antichi Stati regionali”[16], in cui era divisa l’Italia prima della unificazione.

Ma quali che siano state le scelte e le responsabilità di questa o quella parte politica, di questa o quella autorità religiosa, l’unificazione ebbe ed ha un valore in sé.

Giustamente il Presidente Napolitano il 17 marzo nel discorso alle Camere riunite in seduta comune ha osservato che la nascita dello stato nazionale rappresentò un balzo in avanti per il Nord e per il Sud: “Entrammo […] insieme, nella modernità, rimuovendo le barriere che ci precludevano quell’ingresso”.[17]

 

IL  NONNO

Ma accanto alle vicende dell’unificazione, al centro del poema patriottico, come abbiamo detto sopra, vi è la figura del nonno.

Il nonno, che sicuramente adombra una figura familiare, occupa tre sequenze, apre il racconto e lo chiude. Il nonno, perciò, è la figura delineata in modo più completo ed è quella al cui ricordo il narratore si commuove. Irrompe nel testo con un monologo che inizialmente (le prime due-tre terzine)  è un canto lirico (l’addio alla patria, la rievocazione della spedizione dei Mille e lo smantellamento delle industrie del Mezzogiorno), poi si distende nella narrazione del suo primo impatto con l’America e si conclude con la disillusione per lo stato attuale in cui versa l’Italia. 

“Addio l’italica sponda incompiuta / nei secoli…”,

con questo verso, vagamente allusivo, evocativo del manzoniano “Addio monti”, si apre il monologo.

E’ il nonno stesso a fornirci importanti informazioni sul suo “status”:

-         è cattolico;

-         è sposato: ha una moglie;

-         non è poligamo;

-         non è anarchico;

-         non è stato mai in prigione;

-         è sano;

-         ama la patria;

-         ama Dio (infatti è cattolico),

-         ama di meno i Savoia;

-         infatti è mazziniano e repubblicano;

-         emigra in America, negli Stati Uniti;

-         parte il 5 marzo 1904 da Napoli e arriva in America dopo circa un mese, il 28 marzo;

-         quando parte ha vent’anni;

-         in America lo attende il suo amico, paesano, Serrao Andrea, cui va a fare visita appena completate le pratiche burocratiche dello sbarco;

-         poi va ad abitare a Brooklyn, al numero civico 199 di Canal Street;

-         ora che è in America le vicende politiche italiane restano sullo sfondo: ora è assorbito da altri interessi e altre preoccupazioni:

- lavorare;

- far soldi per ricomporre la famiglia facendo venire (richiamando) la moglie;

- organizzare l’economia di casa.

Altre informazioni ce le fornisce il narratore:

-         il nonno è vissuto tra ristrettezze e guerre;

-         è deluso;

-         ha visioni opache delle cose della patria:

-         è una figura epica, eroica, un italiano essenziale.

Il nonno riassume le aspirazioni di ogni emigrato. Per questo aspetto è una figura paradigmatica, esemplare.

Le informazioni che abbiamo riassunto non sono casuali: esse rimandano ad un contesto storico-sociale ben preciso, che è costato enormi sacrifici alle popolazioni del Mezzogiorno, cioè gli ultimi due decenni dell’ ‘800 e i primi due del ‘900, nel corso dei quali avviene la cosiddetta emigrazione transoceanica, cioè nelle Americhe, la quale interessa tutta l’Italia, ma soprattutto l’Italia meridionale.

Per la Calabria è un vero e proprio esodo: solo tra il 1901 e il 1913 partirono ben 572.000 persone, tra di esse il nonno.

Le informazioni sul fatto che egli non è anarchico, non è stato mai in prigione, è emigrato il 1904 non sono superflue: esse sono, invece, interessanti e significative, ove si osservi che gli Stati Uniti negli ultimi decenni dell’ ‘800 e nei primi decenni del ‘900 furono attraversati da estesi e violenti conflitti sociali, spesso brutalmente repressi. “L’immagine degli Stati Uniti come società senza classi né conflitti, così diffusa e radicata da diventare un luogo comune, non corrisponde affatto alla realtà”, scrive Amelia Paparazzo in un saggio sull’emigrazione calabrese[18].

In queste manifestazioni erano coinvolti – e spesso ne erano protagonisti o animatori - proprio gli anarchici emigrati dall’Italia, che, perciò, venivano tenuti d’occhio da parte delle autorità americane. E ad esse non mancava la partecipazione degli emigrati calabresi, alcuni provenienti proprio dalle nostre zone. Ricordiamo Emilio Grandinetti, di Decollatura, che, insieme al toscano Giuseppe Bertelli è uno dei leader dello sciopero del 1910; Francesco Sirianni, di San Pietro Apostolo; Roberto Elia, di Catanzaro; Francesco Luigi Perri, di Petronà; Leonardo Rusumanno e Paolo Scicchitano, di Borgia; Pietro Baroni, di Maida; Salvatore Zumpano, un operaio anarchico, di San Nicola dell’Alto (CZ)[19].

Generalmente si tratta di persone già politicamente impegnate in patria nel movimento socialista e/o anarchico. In America sono sorvegliate e spesso inquisite dalla polizia; a volte vengono rimpatriate per attività sovversiva, a volte ritornano spontaneamente nei loro paesi di origine, dove continuano il loro impegno politico, arricchito dalla esperienza negli Stati Uniti. 

L’informazione che il nonno non è anarchico e che non ha problemi con la giustizia vuol significare che non ha avuto noie con le autorità locali né all’ingresso né durante il soggiorno negli Stati Uniti.

Infine, il fatto che egli, il “nonno”, vada ad abitare a Brooklyn conferma un altro dato storico, e cioè che «i calabresi, così come negli stessi anni facevano tanti altri meridionali, scelgono di dislocarsi nelle aree urbane», perché «la città garantisce un rapporto con persone provenienti dagli stessi paesi d’origine e permette un inserimento meno traumatico nel tessuto sociale del paese d’adozione […]. E si è ospitati, in molti casi e per un primo periodo, nelle abitazioni di parenti, di semplici conoscenti e di compaesani».[20]

 

 

“Commiato” è intitolato l’ultimo “episodio” del poema.

Ormai la “cena pluralista” volge alla fine, e “la pioggerellina fina fina” che è cominciata a cadere preannuncia e accompagna il melanconico commiato del nonno che ritorna nelle brume, dalle quali l’affetto del nipote lo ha richiamato riportandolo tra di noi e immortalandolo in questo poema, perché la poesia “vince di mille secoli il silenzio”. Il suo pensiero ritorna al momento dello sbarco in America – un’esperienza, la permanenza in America, rimasta ovviamente indelebile nel suo animo, come rivela anche il linguaggio da lui usato, spesso intramezzato da espressioni in lingua inglese - : in Italia era primavera, gli alberi pieni di gemme, ma a New York faceva freddo. Era bella la canzone “E’ arrivata primavera”, ma il suo cuore non balla, perché è triste abbandonare la patria, la propria terra e andarsene per il mondo[21].

 Il nonno ha molta dignità. Sebbene deluso, ha mantenuto saldi i propri ideali mazziniani e repubblicani e di attaccamento alla patria, ha fatto affidamento solo sulle sue forze, sulla sua fede religiosa e sulla sua famiglia, perciò può congedarsi con fierezza dal nipote: “io non devo dire grazie a nessuno, se mi sono salvato è grazie a Dio e alla Madonna  del Carmelo; ma soprattutto il merito è di tua nonna” (p. 39).


 

[1] Il testo della poesia:

Muore ignominiosamente la repubblica.

Ignominiosamente la spiano

i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti.

Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto.

Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani,

si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli.

Tutto accade ignominiosamente, tutto

meno la morte medesima -  cerco di farmi intendere

dinanzi a non so che tribunale

di che sognata equità. E l’udienza è tolta.

(Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, A. Mondadori editore, Milano 1998, p. 477).

 [2] Ibidem, p. 1613.

[3] Uso il termine “ideologia” per indicare: 1) il punto di vista e la presa di posizione politica, religiosa dei personaggi; 2) l’insieme delle convinzioni, dei valori, delle idee di cui ciascuno di essi si fa portatore.

[4] Cfr. Rosario Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959.

[5] “Questo mondo civile – afferma Vico nella Scienza Nuova – egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, ossia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini”.

[6] Cfr. il proemio delle Storie di Erodoto: Ἡροδότου  Ἁλικαρνησσέος ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε, “questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso” (trad. di Virginio Antelami).

[7] “Il prologo è l’intero elemento di una tragedia, che precede l’ingresso del coro”[7], cioè la parodo (πάροδος, il canto d’ingresso). Cfr. Aristotele, Dell’arte poetica, a cura di Carlo Gallavotti, p. 41.

[8] “… L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io. / Dammi, o ciel, che sia foco / agli italici petti il sangue mio” (All’Italia, vv. 37-40). La poesia è stata scritta dal Leopardi nel 1818, all’età di 20 anni. Questi versi sono diventati celebri, “proverbiali”, dice il Russo, e sono stati fatti oggetto di giudizi contrastanti da parte della critica: chi vi ha visto “il nocciolo lirico, anzi l’anima della canzone”, come il Carducci; chi, invece, un esercizio retorico, “un gioco rettorico”, come il De Sanctis. Di tutt’altro avviso Walter Binni. Il verbo “procomberò” è un neologismo. Il Leopardi lo prese da Virgilio, esattamente dal libro II, v. 426 dell’Eneide, che egli aveva provveduto a tradurre in italiano nell’estate del 1816: ce lo dice il Leopardi stesso in una annotazione autografa a margine dei versi della canzone. Nel secondo libro Enea racconta alla corte di Didone la distruzione di Troia ad opera dei Greci. Nei versi 424-426 racconta la morte di Corebo: “… primusque Coroebus / Penelei dextra divae armipotentis ad aram / procumbit”, che il Leopardi così traduce: “… Primier di Palla / armipossente Peneleo prosterne / Corebo anzi a l’altare” (G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni, Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 440). Nella versione moderna di Luca Canali i versi suonano così: “… e per primo Corebo / soccombe per mano di Peneleo vicino all’ara della dea / possente nell’armi” (Virgilio, Eneide, libri I-II, a cura di E. Paratore, traduzione di Luca Canali, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1978, p. 89).

     Il Tommaseo accolse subito il verbo nel suo Dizionario della lingua italiana, avendolo evidentemente trovato felice, come annota Luigi Russo, ma lo accompagnò da un commento irriguardoso verso la persona del Leopardi, definito, tra l’altro, “verseggiatore”. Evidentemente il Tommaseo aveva poca stima del Leopardi. Il Russo, sottolineato che il verbo “procomberò” aggiunge una sfumatura agonistica al più comune “soccomberò”, definisce “acre e infelice” la chiosa del Tommaseo. Il Carducci, a sua volta, si dichiara dispiaciuto che “un nobile spirito” qual era il Tommaseo “si servisse del Dizionario della lingua italiana per iscagliare a un infelicissimo e glorioso morto quest’oltraggio”.

Comunque, ai fini dell’argomento del “Poema patriottico”, conviene forse di più riportare quanto il poeta scrive, a proposito degli italiani, nell’Argomento in prosa della canzone: “Si può ricordare in modo di sentenze liriche quello che ho scritto nei miei pensieri delle illusioni che si spengono, in proposito della freddezza degli italiani” (“Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia”, in G. Leopardi, Tutte le opere, cit., p. 331).

 [9] «La storia della romanizzazione d’Italia si può suddividere in due epoche principali: la prima (fra il IV secolo a. C. e la guerra sociale 90-89 a. C.), in cui si ebbe la conquista e l’ordinamento “scalare” dell’Italia (“scalare” come fu chiamato dal Pareti in quanto la lega italiana  sotto l’egemonia di Roma comprendeva città federate [socii – le città federate erano unite a Roma da un foedus aequum o da un foedus iniquum], municipi con suffragio, municipi senza suffragio, colonie romane, colonie latine); la seconda epoca, a cominciare dalla guerra sociale 90-89 a. C., in cui i socii  ebbero la civitas (cittadinanza romana). Questa municipalizzazione dell’Italia deve il suo inzio, e la sua ragion d’essere, dunque, alla guerra sociale 90-89 a. C. , e alla legislazione collegata con la guerra sociale stessa, e da questa derivata» ([Giovanni Vitucci], Appunti di Storia romana, a.a. 1965-66, Roma 1966, p. 37).

[10] Natalino Sapegno, La poesia del Petrarca. Commento alle Rime, Mario Bulzoni editore, Roma 1965, p. 144.

[11] E’ il titolo dell’ultimo capitolo del Principe, il XXVI, che così si conclude: “A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, dunque, la illustre casa vostra questo assunto (cioè questa magnanima impresa) con quello animo e con quella speranza  che si pigliano le imprese iuste” (cioè, con quel coraggio, con quell’ardimento e speranza con cui si intraprendono le imprese giuste).

[12] Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1973, pp. 304-305.

[13] Massimo Teodori, Risorgimento laico, cit., p. 48.

[14] Il Sillabo fu pubblicato da Pio IX nel 1864, in appendice all’enciclica Quanta cura; l’Enciclica Humanum genus. De secta massonum, fu emanata da Leone XIII nel 1884; l’enciclica Sugli errori del modernismo (Pascendi dominici gregis),fu emanata da Pio X  l’8 settembre 1907. Per avere l’idea del livello dello scontro, si consideri che Il Sillabo, che,  come si sa,  è un elenco dei “principali errori” di quell’età, elencava tra gli errori l’affermazione, definita addirittura “delirante”, secondo la quale “la libertà di coscienza e di culto è un diritto di ciascun uomo”. A giusta ragione, perciò, il Sillabo è stato definito  «una specie di magna carta dell’integralismo politico e civile alternativo alla civiltà laica dell’Occidente liberale, democratico e socialista» (Massimo Teodori, Risorgimento laico, cit. p. 47). 

[15] Stefano Folli, Steccati e passioni civili, in  “Il Sole 24 Ore”, 11settembre 2011.

[16] Alessandro Galante Garrone et alii, Risorgimento. Manifesto sul revisionismo, La Stampa, 20 settembre 2000.

[17]  “Non c’è discussione, pur lecita e feconda, sulle ombre, sulle contraddizioni e tensioni di quel movimento (unitario che portò all’unificazione d’Italia nel 1861) che possa oscurare il dato fondamentale dello storico balzo in avanti che la nascita del nostro Stato nazionale rappresentò per l’insieme degli italiani, per le popolazioni di ogni parte, Nord e Sud, che in esso si unirono. Entrammo, così, insieme, nella modernità, rimuovendo le barriere che ci precludevano quell’ingresso”.

 

[18] Amelia Paparazzo, Il contributo degli emigrati calabresi alle lotte operaie degli stati Uniti, in Amelia Paparazzo - Katia Massara – Marcella Bencivenni – Oscar Greco – Emilia Bruno, Calabresi sovversivi nel mondo. L’esodo, l’impegno politico, le lotte degli emigrati in terra straniera (1880-1940), Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 13.

[19] Ibidem, p. 27 e passim.

 [20] Ibidem, p. 19.

[21] Virgilio: nos patriae finis et dulcia linquimus arva. / Nos patriam fugimus, “Noi si sgombra // dai nostri dolci campi, andiamo via / dal patrio suolo” (trad. di Agostino Richelmy), cantava con struggente nostalgia il poeta latino col suo pastore Melibeo.

 

 

 

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